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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

Chi aspira a sviluppare una professione con onore, come dirigere con vera leadership, o occuparsi di questioni importanti come la ricerca, le aziende, la medicina, la sicurezza, la scienza, le organizzazioni, le scuole, ovunque, prima deve fare i conti con la propria crescita personale, le proprie capacità e valori.

Bisogna prendere atto del fatto che il nostro carattere determina larga parte della nostra modalità comunicativa, lo stile di leadership, le decisioni.

Bisogna essere abbastanza umili per capire che il nostro carattere non è qualche cosa di inviolabile ma anzi lavorarvi è un atto sacro. È utile cercare di capire su quali tratti possiamo lavorare. È un atto sacro anche l’azione e il tentativo che mettiamo in atto per migliorarci, al di là che ci riusciamo o meno, o che ci riusciamo subito o dopo un periodo di tempo. Spesso il miglioramento richiede un percorso, e non un singolo atto.

Spesso il miglioramento richiede un percorso, e non un singolo atto. Chi affronta un percorso di miglioramento personale è sempre una persona coraggiosa. Ha il coraggio delle emozioni, ha deciso di guardarsi dentro, scoprire le alchimie della formula arcana in cui è inserito, capire come funziona il proprio ingranaggio interiore, e cambiarsi in meglio (Trevisani 2015).

Vogliamo migliorarci per essere sempre di più noi stessi nel nostro pieno potenziale e non persone che si nascondono dietro a scuse come “sono fatto così, che cosa vuoi farci?”.

Lavorare sul proprio carattere per migliorarsi significa ascoltare i propri valori senza rifiutarli, ma anche avere l’umiltà di pensare “posso sempre fare passi in avanti nel mio processo di miglioramento personale”. Chi non accetta questa visione potrebbe pensare di sé “sono il migliore, perché lo dico io”. Questa è sostanzialmente una forma di nevrosi.

Alexander Lowen (1982) ci mette in guardia chiaramente sui rischi che le nevrosi generano nelle persone. Prima di tutto, non saper imparare dal­l’esperienza.

Si dice che le persone imparino dal­l’esperienza, e in generale questo è vero: l’esperienza è il migliore e, forse, l’unico vero maestro.

Ma questa regola non sembra potersi applicare al campo della nevrosi. La persona non impara dall’esperienza ma ripete continuamente lo stesso comportamento distruttivo.

Aprirsi a capire prima di tutto “che cosa vorrei migliorare di me” è un grande processo di focusing[1], una focalizzazione consacrata, importante.

Fare focusing significa andare alla ricerca di chi siamo e come comunichiamo, che cosa sentiamo dentro di noi, e come questo si trasferisce all’esterno di noi.

Significa quindi andare alla ricerca di un manoscritto unico, un testo nascosto, che non è di facile accesso e si trova solo nel­l’esplorazione attenta e profonda. Questa esplorazione può essere appresa in appositi corsi, può essere potenziata quando guidata da professionisti esterni, ma al di là della tecnica richiede sempre e comunque una grande voglia di scoprire il massimo del proprio potenziale umano possibile.

Per lavorare sul carattere occorre un contributo esterno, che sia coaching, counseling o formazione esperienziale, pratica, confronto, feedback, motivazione alla voglia di migliorarsi.

Alexander Lowen (1982), sviluppatore della Bioenergetica, ci ricorda un fatto importante:

Il carattere determina il fato.

Per carattere si intende il modo di essere o di comportarsi tipico, abituale o “caratteristico” di una persona.

Definisce un insieme di risposte fisse, buone o cattive, indipendenti dai processi mentali coscienti.

Non possiamo cambiare il nostro carattere con un’azione cosciente, perché non è soggetto alla nostra volontà.

Di solito non siamo neppure coscienti del nostro carattere, perché diventa per noi come una “seconda natura”.

Avere voglia di capire i nostri limiti e opportunità, forze e debolezze, non ha niente a che fare con la ricerca di qualche forma di “patologia” mentale, non è un atto medico, conoscersi a fondo non è un percorso clinico ma anzi, diventerà operazione di scoperta quotidiana, operazione che ci porta alla scoperta della “cultura” che ci circola dentro, l’insieme di regole che usiamo inconsciamente nel nostro comportamento quotidiano.

Questo permette di tenere alla larga gli stati mentali negativi che rischiano di farci ammalare o di farci agire in modo automatico e senza il nostro consenso.


[1] Per la metodologia del focusing, vedi i testi di Gendlin (in particolare 2002); inoltre: Campbell e McMahon (2001); Elliot, Watson, Goldman e Greenberg (2007); Weiser Cornell (2007); Welwood (1994).

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online:

Temi e Keywords dell’articolo:

  • Leadership
  • Carattere
  • Crescita personale
  • Lavoro su di sé
  • Potenziale umano
  • Valori
  • Motivazione
  • Focusing
  • Conoscersi a fondo
  • Coraggio delle emozioni

©Copyright. Estratto dal testo di Daniele Trevisani “Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone”. Roma, Mediterranee. Articolo estratto dal testo e pubblicato con il permesso dell’autore.

Il confine corporeo della libertà

In questa ricerca di libertà, abbiamo un confine, il corpo, e questo limite fisico è anche una risorsa straordinaria.

Siamo menti che “abitano” un corpo, degli “embodied minds”, menti incorporate, creature viventi dotate di autocoscienza, cellule e atomi che miracolosamente prendono atto di esistere, e possono muoversi. Ma non per questo, automaticamente, diventiamo liberi. Ad esempio, non possiamo volare, né teletrasportarci.

Poniamo sul tavolo un’ipotesi di lavoro: la libertà è un sentimento vissuto, un sentire corporeo, una forma di dialogo interno, che ci dice che stiamo vivendo a pieno la nostra vita come la vogliamo e senza essere ingabbiati da forze subdole.

Attenzione. Non ha a che fare strettamente con catene, con mura, con “non libertà” fisiche molto ovvie come la prigione. Alcuni pensano che essere single sia un’enorme forma di libertà, altri lo vivono come una prigione (la prigione della solitudine e dell’isolamento). Lo stesso per l’avere famiglia e figli. Prigione esistenziale per alcuni, “il mio focolare più bello” per altri. 

Allenarsi e combattere senza paura e senza ansie inutili è possibile. Lo stesso vale per il lavoro, o fare una presentazione o public speaking. Se lo vivi come un obbligo, viene meno ogni forma di gusto e gioia di vita e dell’atto stesso. Possiamo scoprire i piaceri nascosti in questi brani di vita?

Si tratta di vivere allenamenti e gare, o performance lavorative, come atti di libertà, atti di vita, momenti di festa e di gioia, nel rispetto delle tradizioni. Pensieri come “devo vincere” o “devo fare bella figura” non portano a libertà ma danno sostegno ad emozioni negative, che vogliamo invece tenere lontane da noi nel Dojo, sul ring, o sul lavoro.

La libertà ha come contraltare l’imprigionamento, la paura, l’ansia. Ebbene, queste “prigioni” sono molto più corporee di quanto pensiamo. Costruiscono muri invisibili che ingabbiano le persone peggio delle sbarre.

Un messaggio importante: esistono esercizi, seri, molto seri, che ti aiutano a distinguere le “percezioni”, le “sensazioni” di paura e di ansia inutili e controproducenti, e possono liberarti da paure inutili. Li conduco personalmente, derivano dalle Arti Marziali e dal training mentale per gli sport da ring. Del resto non puoi combattere ad alti livelli se hai paura di farti male, paura della gara, paura di confrontarti, paura del pubblico, vergogna di poter perdere, e quasi tutti gli atleti e potenziali campioni si arrestano per queste paure e non per veri traumi. 

Ne farò omaggio prima possibile alla comunità tramite video, essendo quasi impossibili da descrivere a parole.

Ma torniamo a quanto invece si può scrivere.

Vorresti essere libero dalla paura, libero dall’ansia? Tutti lo vorremmo, ma se fossimo completamente liberi dalla paura, nessun segnale arriverebbe a dirci “stop” nell’attraversare una strada piena di camion e saremmo schiacciati come topi. Quindi, vogliamo liberarci di “tutte” le paure o vogliamo imparare a gestirle diversamente e discriminarle?

Io ascolto i messaggi della paura, li tratto con rispetto e imparo da essi, ma non mi faccio limitare”. Questa frase di Ross Heaven, che proviene dalle tecniche usate nella formazione dei Ninja, i guerrieri giapponesi, esprime bene come un certo approccio di consapevolezza aumentata possa liberare la persona da fardelli inutili.

Focusing porta di libertà? L’approccio degli “Embodied Minds”

Così come Paul Watzlawick ha ben espresso, “non è possibile non comunicare”, e che quindi ogni azione o non azione fatta in presenza di altri ha un valore comunicativo[1]. Allo stesso modo, noi dobbiamo renderci conto pienamente che “non è possibile non abitare un corpo”, e il corpo ci condiziona, positivamente o negativamente, ci parla. Che lo ascoltiamo o meno, ci manda segnali e flussi di comunicazione non meno importanti di quelli che scorrono tra le persone (comunicazione mente-corpo).

La libertà richiede prendere atto del corpo e gestirlo in modo consapevole-assertivo, prendere atto del valore della comunicazione mente-corpo e gestirla in modo il più possibile deciso da noi e non esserne solo vittime.

Occorre riconoscere che per comunicare bene all’esterno, è utile capire cosa sta succedendo ai nostri stati interni, stati fisici come le emozioni, stati corporei, i livelli di stanchezza e di stress, stati pre-verbali ancora prima che parole. 

Immaginate una persona che non sa ascoltare bene i propri stati d’animo. Come mai farà ad esprimersi in una comunicazione autentica e libera?

Le emozioni, ricordiamolo, abitano nel corpo[2]. Fare Focusing[3] significa esattamente questo. Andare ad ascoltarsi. Ascoltarsi dentro. Lasciare spazio ai propri segnali interni. Questa è una forma suprema di libertà.

Dal momento in cui capisci di esistere, fino al decidere di dare un’impronta speciale alla tua vita passa molta strada. Questa comprende un atteggiamento altrettanto assertivo sul come esistere e dove voler vivere – sia in termini di ambienti fisiche che di ambienti psicologici.

Da soli è davvero difficile riuscire ad impostare una vita veramente propria e consapevole, fuori dagli schemi proposti con violenza da pubblicità, mass media, esempi negativi attorno a noi e altre forme che subdolamente cercano di dirci “cosa” sia la vita. 

Siamo travolti da messaggi che sin da bambino ti dicono che tu vali in funzione del tuo telefono o della tua auto o della dimensione dei bicipiti o della tua casa o del marchio delle tue scarpe. 

Coaching e Counseling portano un messaggio diverso. Tu vali perché sei, per quello che pensi, per il contributo che dai e darai a questo pianeta, alla cultura umana, sia che tu ci riesca o che tu anche solo ci provi. Tu vali. A prescindere.

Una delle più alte forme di liberta è esprimere se stessi senza nessuna maschera.

Ma come ci ha ricordato Goffman, pioniere su questo tema, siamo creature sociali, e in qualche modo diamo sempre una “rappresentazione” di noi stessi, anche quando cerchiamo di essere genuini.

“Come esseri umani siamo principalmente creature dagli impulsi variabili, con umori ed energie che cambiano da un momento all’altro, come personaggi davanti a un pubblico tuttavia, non possiamo permetterci alti e bassi”.[4]

Le forme del nostro comportamento esterno non sono spesso congruenti con il sentire corporeo interno, le nostre sensazioni, gli stati emotivi che proviamo.

Ecco, forse allora una delle forme estreme di libertà è quella di mostrare anche fuori i nostri sentimenti interni e gli stati interni che viviamo, uscire dal “personaggio” ed essere più veri possibile, anche a costo di apparire “variabili” o come altri dicono, “umorali”. Umorali ma veri, è meglio che standardizzati sempre, ma falsi.

E se sei davvero libero, questo comprende una grande varietà di libertà, ad esempio cercare le emozioni che una certa musica ti dà, anziché ascoltare la stupida radio commerciale. La musica produce emozioni[5]. E tu che emozioni vuoi vivere? 

Che si tratti di musica “epica”, classica, o rock anni ’70, poco importa. Ma accendere la radio e pensare che quella e solo quella che passa il convento radiofonico sia la musica, non è grande esempio di libertà.


[1] Watzlawick, Paul, Janet H. Beavin, and Don D. Jackson. Pragmatics of Human Communication: A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes. New York: Norton, 1967.  

[2] Buck, Ross. The Communication of Emotion. New York: Guilford P, 1984.

[3] Letteralmente, “focalizzazione”, nel senso indicato da Gendlin. Vedi bibliografia per approfondimenti.

[4] Goffman, Erving (1959), The Presentation of Self in Everyday Life. New York, Doubleday. Trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, p. 68.

[5] Budd, Malcolm. Music and the Emotions. London: Routledge & Kegan Paul, 1985.

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online


Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Ogni atto comunicativo può essere autentico o meno. Questa autenticità si lega all’espressione sincera del proprio pensiero e della propria interiorità, che ognuno ha il compito di far emergere. Nell’articolo a seguire analizzeremo più nel dettaglio questo concetto e i suoi effetti comunicativi.

La comunicazione implica uno scambio d’informazioni e di emozioni. Ragionare sulla nostra identità ci chiede di fare luce sulla nostra vera natura, sul nostro essere. Una grande fonte d’incomunicabilità avviene quando noi stessi non abbiamo fatto chiarezza prima di tutto su di noi e sui confini del nostro spazio mentale e di ruolo nel mondo.

Fare introspezione mirata ha un nome in psicologia: fare focusing. Il focusing ci permette di chiarire, prima di tutto a noi stessi, quello che vogliamo trasmettere, quello che ci sembra importante trasmettere e quello che vogliamo che accada in seguito alla nostra comunicazione (effetto o risultato comunicativo). 

Il tema dell’incomunicabilità ci porta a chiederci quale sia il possibile “common ground”, cosa “io e te” abbiamo potenzialmente da condividere, quali interessi comuni abbiamo o potremmo avere, di cosa potremmo parlare.  

Il tema delle quattro distanze ci chiede anche di cercare possibili aree di interesse comune sul ruolo che le persone ci presentano, sui codici comunicativi comuni che potremmo avere, sui valori comuni che ci sono o ci potrebbero essere, sui nostri passati condivisi, anche solo a livello emotivo o esperienziale. 

Chiederci in cosa crediamo veramente, chiederci se stiamo davvero comunicando in modo autentico, non è tempo perso. Interiorizzare valori, sentirli nostri, volere fortemente rompere le barriere dell’incomunicabilità, è un compito sacro e nobile. 

Fare emergere il contenuto della nostra “nuvoletta dei pensieri”, i pensieri che ci accompagnano sempre anche se non formulati a parole, ci consente di poter interagire tra “il mio mondo” e “il tuo mondo” per cercare spazi comuni.  

Esplicitare il dialogo interno è una tecnica chiamata think aloud (esporre a voce il proprio dialogo interno): una modalità di avvicinamento alla comunicazione autentica. Non tutti ci dicono sempre cosa stanno pensando. Dire cosa stiamo pensando è un atto liberatorio. Dire le cose chiaramente è molto meglio che tenerle dentro a marcire, ma richiede di lasciar perdere tutta quella serie di timori comunicativi, la paura del rifiuto, del giudizio, per far spazio alla voglia di cercare un flusso libero di scambio comunicativo. 

L’importante è che non si crei una sorta di “sincerità distruttiva” che mette la verità e il “dire” prima dei diritti delle altre persone, tra cui, a volte, il diritto di essere lasciati in pace o di non sapere. 

Le Quattro Distanze entrano prepotentemente nella possibilità o meno di avere uno scambio comunicativo centrato sulla comunicazione autentica, diretta, vera, e non sulla falsità che emerge da maschere e ruoli obbligati. 

Non tutta la comunicazione può però considerarsi autentica. Esistono infatti 3 strati comunicativi: 

  1. Una parte di informazione che noi consideriamo “la nostra verità”, qualcosa che crediamo sia vero, almeno per noi. Queste “credenze” sono molto importanti, perché quando vengono messe in dubbio o attaccate, percepiamo un attacco al nostro essere, al nostro ruolo, un attacco alla nostra persona, e non solo un’opinione diversa sul fatto in oggetto. Imparare a scollegare le nostre credenze dalla nostra identità e giudizio di valore è una competenza fondamentale per chi vuole comunicare e negoziare con grande consapevolezza e senza venirne distrutto.  Bisogna però mettere in guardia da tutto ciò: la verità fortemente creduta è in molti casi frutto di autosuggestione, di invenzione, di autoinganni.  Sono elementi che crediamo in tutta fede veri, ma che potrebbero non reggere ad una confutazione scientifica o ad una prova dei fatti, e sono spesso anche inutili depotenzianti;
  1. Le verità parziali: contengono elementi di “nostra verità” mescolate ad una parte di comunicazione non autentica: comunicazione di ruolo, informazioni o messaggi su noi stessi che esponiamo per realizzare un impressions management, un’impressione sugli altri, ma che non corrisponde alla nostra verità più profonda;
  1. Una parte di non-detto, di nostre verità interiori non dette, taciute per motivi di convenienza o di timore delle conseguenze.

Esprimere liberamente se stessi e il proprio pensiero non è semplice, ma per creare una comunicazione autentica, oltre che efficace, è sufficiente che ci sia qualcosa, anche di minimale, che faccia da punto di unione tra gli interlocutori: poi si potrà ampliarlo, allargando la profondità di una relazione. 

Il common ground, o territorio di intersezione, è ciò che ci accomuna. La quantità e qualità di questo common ground offre spazi alla comunicazione costruttiva, ma esso va ricercato, non arriva per magia, e trovarlo non è solo piacevole. È vitale. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi: